A mosca cieca (Romano Scavolini, 1966) SATRip VOSI

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Italia A mosca cieca (Romano Scavolini, 1966) SATRip VOSI

Mensaje por -V- » 17 Mar 2013 18:12

A mosca cieca
Ricordati di Haron

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[Italia, 1966]

Directed by
Romano Scavolini	 	
 
Writing credits
(in alphabetical order)
Romano Scavolini	 	

Cast (in credits order)
	Carlo Cecchi		
	Laura Troschel		
	Emiliano Tove		
	Remo Remotti		
	Giuseppe Valdembrini		(as Joseph Valdembrini)
	Ciro Moglioni		
	Cleto Ceracchini		
	Paola Proctor		

Original Music by
Vittorio Gelmetti	 	
 
Cinematography by
Cesare Ferzi	 	
Mario Masini	 	
Roberto Nasso	 	
Romano Scavolini	 	
 
Film Editing by
Mauro Contini	 	
 
Special Effects by
Glauco Morosini	.... 	special effects
 
Music Department
Vittorio Gelmetti	.... 	conductor
  • Invervista a Romano Scavolini
    Michael Guarneri

    MG - In quanto autore di una delle pietre miliari del cinema sperimentale italiano [mi riferisco al film A mosca cieca (1966)], ritiene che lo sperimentalismo cinematografico – pur nella varietà pressoché infinita delle sue manifestazioni particolari – possa essere definito come un tentativo di espressione artistica al di fuori dell'industria dello spettacolo?

    RS - Ho pensato spesso a come rispondere a questo tipo di domanda, se – appunto – il cinema sperimentale fosse o no una presa di posizione anti-estetica rispetto al cinema tradizionale.

    L’unica risposta che sono riuscito a trovare, cercando “dentro di me” ed evitando risposte che potessero suonare ipocrite e “scritte a posteriori”, è che allora non ne sapevo niente, ma proprio niente del cosiddetto “cinema sperimentale”. Sinceramente e con tutta l’onestà possibile, io ho solo pensato a “costruire” un film secondo le mie pulsioni estetiche, in maniera del tutto naturale, direi quasi, senza seguire una “strada” e senza avere un “sistema” al quale rifarmi.

    Capisco che dal punto di vista storico è necessario sistematizzare ogni cosa, aprire e chiudere le parentesi, irretire un certo cinema all’interno di “etichette” affinché sia possibile, appunto, la storicizzazione. Ma io onestamente sono sempre sfuggito a questo tipo di categorie. Posso parlare di quanto ho lavorato sul montaggio, di quante volte ho ri-costruito e poi de-costruito A mosca cieca, di quanti interventi ho pensato di inserire nel film operando direttamente sui frames e, infine, di quante ore sono rimasto davanti al taglio di due fotogrammi perché uno solo era troppo poco e tre erano insopportabilmente troppi. Il cinema “sperimentale” aveva questo tipo di ricchezza, ma anche di libertà totale di fronte alla cosiddetta “realtà”. Il cinema tradizionale ha sempre inseguito ossessivamente “la storia”, lo sperimentalismo cinematografico come primo atto ha “distrutto” la storia per occuparsi solo dell’uomo.


    MG - Quale è stata la modalità produttiva di A mosca cieca? Aveva dei finanziatori? Quale è stata la distribuzione del suo esperimento off-studios all'interno del circuito commerciale?

    RS - Il film è stato prodotto – se così si può dire – da Enzo Nasso, ma in pratica è stato fatto interamente da me… Nasso mi ha solo dato una montagna di negativo in 16mm, scaduto e di vario taglio, avanzi, emulsioni diverse eccetera, garantendomi che lo avrebbe mandato allo sviluppo e alla stampa, e infine mi mise a disposizione una moviola. Ci ho messo quasi un anno a girare e montare A mosca cieca, mentre lui stava alla finestra a guardare che fine avrei fatto.

    Non gli permisi mai di venire in moviola per vedere cosa stavo facendo: in fondo non era il produttore ma solo un “mentore”, un “simpatizzante” che mi dava i pennelli per dipingere.

    Infatti, quando gli dissi che avevo finito il film e che durava sei ore, impallidì: era certo che avrei gettato la spugna, che non avrei mai finito il film, e invece, con sua enorme sorpresa, ero pronto a mostrarglielo. Dopo averlo visto con me, turbato, non disse niente per alcuni giorni. Poi una mattina, ancora commosso, venne a trovarmi e mi disse che aveva fatto vedere il film completo al suo amico [Giuseppe] Ungaretti, e che questi gli aveva detto che aveva in mano un autentico capolavoro. Mi disse che lo avrebbe iscritto regolarmente come film italiano al Ministero, ma che dovevo ridurlo almeno della metà, altrimenti non me lo avrebbe trasportato in 35 mm: non era disposto a spendere soldi per un blow up di sei ore…

    Ritornai in moviola e de-strutturai il film: siccome era un film che si sviluppava su tre livelli, decisi di toglierne due e restare solo con una storia… Inutile dire che solo pochissime persone hanno visto A mosca cieca in versione integrale, perché quello che circola oggi è la seconda versione della mia “seconda versione”.

    Per quanto riguarda la distribuzione, A mosca cieca è un film “proibito” in Italia, censurato e messo al rogo metaforico da tre commissioni di censura e infine anche da un editto del Consiglio di Stato…

    Sigue...
    Spoiler:
    MG - A mosca cieca non può essere considerato un film dell'orrore. Tuttavia, grazie a scelte estetiche spiazzanti (“mutismo” del film, inserimento di found footage, ellissi, ripetizioni e proliferazione dei tempi morti), è riuscito a creare un clima allucinato di lenta discesa nella follia che pochi film di genere propriamente horror hanno eguagliato. Nelle sue intenzioni, la ricerca formale doveva andare di pari passo con l'indifferenza nei confronti del pubblico e delle leggi del mercato? C'era un “bacino di utenza” a cui mirava oppure si considerava un avanguardista d'élite?

    RS - A mosca cieca è un film beckettiano. In fondo si tratta di un semplice omicidio con la variante – del tutto voluta – che nel protagonista è assente qualsiasi senso di colpa. L’inferno di Carlo o, se vogliamo, la discesa negli inferi della sua anima desertificata, è data dall’assenza totale di ogni senso di colpa.

    Il cosiddetto “bacino d’utenza” c'è sempre stato per un film come A mosca cieca, tanto è vero che quel “plot” è ancora saccheggiato in decine di film, l’ultimo dei quali è A single man (2009).

    Non mi sono mai considerato un autore d’élite. Neanche un autore, neanche un cineasta, non mi sono mai sentito bene dentro qualsiasi “etichetta”. Ho fatto film spinto da una coscienza esaltante che prendeva (che continua a prendere) il sopravvento sulla mia storia mondana. Questa è anche la ragione per cui non sono mai appartenuto a nessun gruppo, a nessuna scuola, a niente di codificabile, a niente di rintracciabile. In genere, tutti sanno che non partecipo ad alcuna manifestazione per il cinema e anche se conosco molti cineasti, preferisco starmene per conto mio.


    MG - Come ci suggeriva un attimo fa, A mosca cieca introduce nel cinema italiano un topos immediatamente fatto proprio da altri suoi colleghi “impegnati” [si veda, ad esempio, il Ferreri di Dillinger è morto (1969)]: l'analisi del rapporto uomo-arma da fuoco come sintomo di psicopatologia della vita quotidiana.

    Nel materiale che accompagna l'edizione VHS della Rarovideo, Bruno di Marino traccia un parallelo tra il suo film e Lo straniero di Camus. Personalmente, penso che l'atto di sparare a caso sulla folla sia riconducibile più alla rivolta estetica surrealista (Breton) che a quella etica dell'esistenzialismo. Il gesto di sparare a caso sulla folla che esce dallo stadio può essere considerato un suo atto di ribellione contro l'idea di spettacolo/entertainment tradizionale? Che tipo di malessere voleva esprimere? La metafora, infatti, è tanto potente quanto aperta alle interpretazioni più varie...


    RS - Ho già detto molte volte, e anche a Bruno di Marino (il primo a parlare di A mosca cieca come una specie di rifacimento de Lo straniero di Camus) che questa interpretazione è falsa, ma sta dilagando nonostante le mie riserve. Ne Lo straniero, Meursault non uccide per caso – non uccide a occhi bendati come Carlo in A mosca cieca – uccide ben sapendo chi uccidere. Durante il processo Meursault è inviso al giudice, che vorrebbe vedere nell’accusato un sentimento di ravvedimento per l’omicidio commesso: il protagonista camusiano chiede di essere “straniero” all’interno di una macchina burocratica che non sa vedere “la vita”, “l’esistente”. In A mosca cieca, invece, non c’è neanche l’ombra di una storia giudiziaria. Non c’è neanche l’ombra di un’emozione, neppure l’amore tra Carlo e Laura è abbastanza forte da gettare un senso di umanità nel deserto interiore del protagonista. All’epoca la critica militante cattolica disse che A mosca cieca era il film più attuale che fosse mai apparso sulla scena cinematografica, perché il suo protagonista testimoniava in maniera evidente la mancanza di Dio nella società moderna: avevano colto nel segno.

    Sinceramente non ho mai pensato che Carlo dovesse rappresentare la mia rabbia o la rabbia latente nella società... non ci ho mai pensato. All’inizio doveva essere un film quasi epico: il protagonista agiva mentre attorno a lui si aprivano squarci di altre esistenze, come per esempio quella della sua vittima. A mosca cieca doveva gravitare attorno a delle “sincronicità” a-casuali, a-temporali, a-spaziali. Le uniche parole che si poteva udire nella colonna sonora originale del film erano: “E' già l’alba” [“Si è fatto giorno” nell'edizione Rarovideo] e “Chi ha voluto ascoltare ascolterà sempre, sia che sappia di non sentire più niente, sia che lo ignori”, tratte da Samuel Beckett.

    Lo straniero di Camus non c’entra per niente. Nonostante Bruno di Marino sia un critico molto acuto e intelligente e abbia colto molti aspetti cruciali del film, il nocciolo duro non era Albert Camus. Quando dopo anni gliel’ho detto, Bruno mi ha chiesto come mai non l’avessi fermato. Io ho semplicemente risposto che ognuno si assume la responsabilità di “vedere” i miei film e pensare quello che crede.

    Il mio compito non è dire che quell'analisi è giusta oppure no. Io penso onestamente che ogni film, alla fine sia di proprietà dello spettatore.


    MG - Il finale di A mosca cieca mi è parso quasi una parodia di quello di Ladri di biciclette (1948). In entrambi, infatti, la casualità e la massa anonima all'uscita dello stadio olimpico giocano un ruolo decisivo. Il collegamento era intenzionale?

    RS - Oggi sembra facile poter fare dei parallelismi dal momento che viviamo in una società in cui i DVD si vendono per strada e i classici si possono scaricare da Internet a piacimento, ma all’epoca non c’erano i DVD e Ladri di biciclette era un film che avevo visto quando neppure pensavo al cinema. Niente parallelismi quindi.


    MG - Nel 1965 Grifi e Baruchello avevano esordito con La verifica incerta, mentre nel 1968 Mario Schifano realizza Satellite. Esistevano contatti, una sorta di “rete” tra voi sperimentatori underground attivi a Roma (e in Italia in generale)?

    RS - Grifi e Baruchello, raccogliendo gli avanzi di pellicola destinati al macero, fecero un’operazione dadaista (cioè anti-cinematografica, anti-estetica) e vennero applauditi dai dadaisti francesi, ma La verifica incerta si può considerare solo una specie di “video arte” dell’epoca perché poi Blob [il programma di Rai3] non ha fatto altro che saccheggiare l’idea moltiplicandola all’infinito. Raccogliere spezzoni di film, soprattutto di scene “proibite”, lo aveva già fatto la distribuzione cinematografica che faceva capo alle sale parrocchiali, e infine Peppuccio Tornatore usò quell’assemblaggio per il bellissimo finale di Nuovo Cinema Paradiso (1988).

    Schifano non voleva fare cinema, ma solo cine-arte, come anche Baruchello, che in effetti non è un cineasta ma un artista che agisce nel panorama della pittura e, di tanto in tanto, utilizza il cinema come forma di video-arte. Per quanto riguarda l’esistenza di un “movimento”, io credo – e l’ho sempre pensato – che non sia mai esistito in Italia qualcosa di analogo alla Nouvelle Vague francese. C’è stato un momento in cui il cinema si era messo al servizio della contro-informazione, ma la vera contro-informazione doveva esprimersi attraverso la rottura del “linguaggio” cinematografico.

    In effetti, lo sperimentalismo italiano – quel poco che si è fatto nel cinema – è stato poi razionalizzato dall’industria della pubblicità: fine dei giochi!


    MG - Cosa pensa della modalità di auto-produzione per un cinema sperimentale in digitale di Giulio Questi [Cfr. l'antologia di corti By Giulio Questi (2008)]?

    RS - Di Giulio Questi, per mia totale mancanza, conosco poco. Cercherò di rimediare, perché credo che meriti molta più attenzione di quanta ne abbia ricevuta fino ad oggi.


    MG - Nel 1972 lei dirige Un bianco vestito per Marialé, film di genere, low budget e audience oriented: passa così da outsider a integrato. Come ha ottenuto la direzione del film? E' intervenuto molto sulla sceneggiatura originale?

    RS - All’epoca avevo prodotto un film a mio fratello [Amore e morte nel giardino degli dèi] e mi ero indebitato. Avevo firmato una montagna di cambiali da pagare. Così accettai di farmi trascinare in quell'avventura per pagare i debiti. Presi in mano la sceneggiatura originale e la riscrissi rimettendo le mani su circa l’80%. Come ho detto, ho riscritto più della metà della sceneggiatura, ma non ho voluto firmarla. Ho firmato la direzione degli attori (il cast era già fatto) e la fotografia… e sono stato anche in macchina!

    Per dovere di cronaca, ricordo che anche Marialé – come A mosca cieca – andò incontro a vari attacchi da parte del Vaticano e alla fine i distributori lo ritirarono... fu invece venduto bene molto in U.S.A.


    MG - Di Marialé trovo straordinaria l'incertezza in cui si rimane riguardo all'identità dell'assassino nel finale (a meno di voler credere alla poco convincente spiegazione fornita da uno dei personaggi e a un killer con il dono dell'ubiquità).

    Più in generale – vedendo il film – mi pare che lei sia uno dei registi che più hanno radicalizzato l'attitudine decostruzionista verso i topoi dell'entertainment “di genere”. E' un'eredità del suo periodo “terrorista” da sperimentale? Aveva dei modelli/idoli polemici?


    RS - All’epoca, quando mi si chiedeva chi erano i miei punti di riferimento nel cinema, davo una risposta che praticamente spiazzava chiunque la udisse: amavo ed amo solo Kaneto Shindo [Cfr. Onibaba (1964)]! Un cinema puro, in cui lo spettatore è preso nell'infinita rete del “vuoto”. Un cinema pneumatico, in cui lo spettatore respira con le immagini... sentendo il proprio respiro.

    Solo chi ama il cinema come lo amo io può essere considerato pericoloso, perché il cinema per me non è una “pausa pranzo”, ma sottoporsi ad un’operazione chirurgica. Il cinema deve fare male: lo spettatore deve essere tenuto sempre sveglio, e lo si può fare solo spiazzandolo. Il cinema è, per sua natura, una forma di intrattenimento che sfrutta uno stato ipnotico (ipnagogico) dello spettatore. Io combatto questo “stato alterato di coscienza” ogni volta che posso farlo, perché lo spettatore è come un cieco che cammina in cerca della luce: quello che vede sono solo ombre, ma lui deve lottare per andare oltre le ombre… oltre la macchina di proiezione, oltre lo schermo, perché il vero schermo è la coscienza dell'individuo.


    MG - L'espediente della “soggettiva dell'assassino” non è certo una novità nel giallo all'italiana (L'uccello dalle piume di cristallo, per esempio, è del 1970). Tuttavia in Marialé lei ne fa un uso a dir poco massivo: si tratta, come in Reazione a catena (1971) di Mario Bava, di un modo rapido ed economico per girare una scena, oppure ci sono altre motivazioni che l'hanno spinta ad usarla?

    RS - In tutta sincerità, io credo che sia un modo economico per girare una scena, ma se fatta bene produce anche suspense. Il fatto è che Marialé aveva molti personaggi e non potevo inquadrarli tutti escludendo l’assassino, altrimenti lo spettatore se ne sarebbe accorto.

    Quindi la “soggettiva” è un espediente per poter manipolare liberamente lo stato d’ansia che prova lo spettatore.


    MG - In base alla sua esperienza personale su entrambi i fronti, cosa può dirci di un sistema economico-artistico in cui l'ipertrofia del cinema “di genere” era chiamata a sostenere un numero limitato di prove d'autore difficilmente classificabili come “prodotti spettacolari” (penso, per esempio, alle opere di Antonioni e Pasolini)?

    RS - I produttori di Antonioni e Pasolini – ma anche di Rosi e tanti altri maestri del cinema italiano – sono stati sostenuti grazie agli introiti dei film di Totò e, comunque, dal quel cinema di “facile digestione”. Ogni produttore italiano di una certa classe, all’epoca, voleva avere il suo nome abbinato a dei “grandi film”, pur non capendo niente di cinema d’autore. Poi, ovviamente, si sarebbe rifatto delle perdite producendo la commedia all’italiana.

    Il primo film di Pasolini, cioè Accattone (1961), doveva essere prodotto da Federico Fellini, che però si ritirò – disse lui – perché non era così sicuro che Pasolini sapesse fare cinema!!! Anni dopo confessò senza ipocrisia questa sua mancanza di “visionarietà”, proprio lui che era considerato il padre dell’iper-realismo. In sostanza, Fellini disse di non sapere niente del cinema, eccetto di quello fatto da lui. (...)
    http://www.splattercontainer.com/approf ... -scavolini
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LuisB
 
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Re: A mosca cieca (Romano Scavolini, 1966) SATRip VOSI

Mensaje por LuisB » 18 Mar 2013 01:44

Muchas gracias V. He oído hablar mucho de ella pero jamás la ví. :hi:

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OrsonHitchcock
 
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Re: A mosca cieca (Romano Scavolini, 1966) SATRip VOSI

Mensaje por OrsonHitchcock » 18 Mar 2013 13:56

Muchas gracias -V-

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